Addio all’antico mondo dei Dinka | Rivista Africa

2023-02-22 16:58:26 By : Ms. Serena shi

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Guerra e modernità hanno sconvolto i ritmi dei pastori del Sud Sudan. I Dinka vivono in simbiosi con le loro vacche dalle lunghe corna, da cui traggono latte e sangue. Da secoli si spostano in cerca di pascoli, al ritmo delle piogge, attraversando terre che trasudano petrolio e fanno gola a tanti

Nel 2009 venni spedito in quella landa che non era ancora il Sud Sudan, dove si era appena conclusa una delle guerre civili. Allora io avevo il compito progressista di pianificare una città a Turalei, un buco di fango circondato dalle acque che confluiscono nel Bahr el-Ghazal e poi nel Nilo. Da quelle parti vivono i Dinka Twic, pastori di vacche dalle grandi corna.

A Turalei, come nell’universo dei pastori, ogni cosa era rotonda, dai meandri del fiume alle capanne di fango e canne. Secondo le organizzazioni umanitarie avrei dovuto sovrapporre una griglia quadra a tutto ciò, per modernismo. Cominciai dall’unica pista che tagliava in due la conca fangosa e spariva verso nord, se e quando si poteva traversare il fiume. Convinto che la partecipazione sia l’unica via, chiesi cosa volessero per prima cosa nella “città”.

Il portavoce locale era Awan Madut, un ragazzo nato e cresciuto nella guerra civile. «Abbiamo discusso. Vogliamo una rotonda per il traffico», disse. «Ma se qui non passa nessuno e non c’è neppure una seconda strada!». «Al tuo Paese ce l’hai una rotonda?», chiese secco Awan. «Dappertutto». «Allora vogliamo una rotonda».

Così facemmo una rotonda di sassi, tagliando la via poco a nord dell’albero delle riunioni comunitarie. «Mettici un bel palo al centro», chiese Awan. Piantammo il palo, dando la biacca bianca alle pietre di sostegno. «Per evitare gli incidenti di traffico», spiegai sarcastico. La mattina dopo, il palo era completamente ricoperto di grandi corna di bue, il simbolo stesso della potenza e della bellezza fra i Dinka. A modo loro, avevano consacrato il palo di fondazione della città, così come si è fatto sin dai tempi di Ur dei Caldei.

Oggi la rotonda è visibile con Google Earth, al centro dell’urbanistica griglia di vie ad angolo retto che è divenuta Turalei. Personalmente preferisco ricordare come, al di sopra della pianura semipaludosa di erbe alte che è il territorio dinka, si dovesse guardare le stelle per capire dove si fosse.

Per i Dinka, Sirio, l’astro più brillante, si chiama Chiear. Un tempo era un bue di Makuc Long. Makuc era preoccupato per la sua gente. Erano negli accampamenti delle vacche sulle terre alte che qui chiamano wunthony, lontano dai villaggi principali, tra i mesi di settembre (lal) e ottobre (hor). Era stata una brutta stagione, con poche piogge. Così l’erba attorno al campo di Makuc stava per finire, divorata dalle migliaia di mucche che lo attorniavano. Makuc abbracciò il suo bue preferito, un grande animale tutto bianco, con le immense corna simili alla Luna. Poi prese la parola, senza accorgersi che era ancora notte. «Dobbiamo andarcene da qui, e subito – disse –, altrimenti le nostre vacche moriranno. E noi con loro». La gente di Makuc aprì gli occhi, colta nel sonno. «Ma che vuoi, lasciaci dormire», disse uno. «Zitto! Sveglierai i bambini», disse una donna. Allora Makuc guardò il mantello del suo bue, e gli parve risplendesse di luce propria. Con forza erculea lo sollevò nel cielo, trasformandolo in Chiear, la stella Sirio. Poi si mise a battere il tamburo di richiamo per le vacche, il lorabun che fa scattare il bestiame a ogni battito come in una danza. La gente di Makuc aprì gli occhi.

Ingannato dalla luce di Sirio, ognuno si affrettò a balzar fuori dai giacigli. Si misero in colonna dietro a Makuc e al suo tamburo, e spostarono le vacche dove c’era pascolo fresco. Così, con l’inganno di una stella che cancella la notte e la pigrizia delle persone, Makuc salvò il mondo dei Dinka.  

Le vacche se ne andranno

Anche noi operatori occidentali dello sviluppo dobbiamo pianificare l’inganno. La gente di Turalei si è crogiolata nell’illusione che la tradizione vincerà sul progresso, che ciò che è sempre stato non cambierà mai, che non dovrà alzarsi nella notte al suono di chissà quale strumento per correre verso il nuovo e sopravvivere.

Presto le vacche saranno scacciate da Turalei. Me lo comunicò allora Madut, divenuto amministratore del Payam, il “Comune”. Tenne su di me lo sguardo duro di chi aveva fatto una guerra durissima per qualcosa di importante e ne aveva pagato il prezzo, e non sarebbero state quattro o quattrocentomila vacche a fermarlo. «La mia gente deve capire che il mondo cambia – mi disse –. Le vacche se ne andranno. E il Sud Sudan avrà un futuro di modernità, con strade e ponti per toglierci dal fango, e vie diritte e case di mattoni, senza cacca e sporcizia nelle strade: l’immondizia la porteremo lontano appena avremo un mezzo per farlo», aggiunse il neosindaco.

E pensare che i Dinka si lavavano con l’orina e si proteggevano dalle zanzare con la cenere di letame in faccia e, soprattutto, sulle sopracciglia. «Così sembrano corna», mi aveva detto una ragazza con sguardo sognante. Oggi tutti hanno la zanzariera, ma la relazione con le mucche è ancora forte. Per i Dinka le vacche sono sacre. Ne bevono il latte e il sangue. Raramente ne mangiano la carne. Solo nelle cerimonie. Ogni bambino dinka riceve alla nascita il suo vitello, da cui prende il nome e con cui crescerà.

Ai vecchi tempi, quando i Dinka erano nudi, ho visto un ragazzo soffiare dentro la vagina di una vacca. «Serviva a far nascere più vitelli», mi ha spiegato Manyuat, un anziano di grande dignità. «Ora non più?», chiesi. «Non lo so». Guardava il suo luok, la casa delle vacche. È il più bell’edificio dei dintorni, con un tetto conico ricoperto di paglia che si slancia alto verso il cielo. Il luok è decorato con rilievi a forma di enormi corna lunate. «La base delle corna è come vuota – mi spiegò Manyuat –. Così la testa rimane alta mentre traversiamo le esondazioni».

Modernità e bando alle vacche non son serviti a Turalei. Mentre si costruiva l’ospedale, proposi di allestire una “corsia antropologica” per integrare i reduci e favorire i rapporti tra Dinka e i vicini Nuer, alleati contro gli “arabi” del Nord Sudan, ma nemici da sempre.

C’era un grande albero, appena fuori dall’ospedale. Faceva ombra a un accampamento: qualche stuoia, zanzariere sforacchiate, schermi colorati, fucsia, rosa, turchesi, tutti un po’ sbiaditi come sempre in Africa. Le persone se ne stavano lì, in attesa, un po’ in disparte per non disturbare. Erano Nuer in terra dinka, e il tribalismo, tra due gruppi che si sono battuti in faide millenarie, è sempre in agguato. Erano malati venuti in massa a farsi curare all’ospedale: una benda qua e un’operazione là, medicine per tutti, via uno l’altro.

Si trattava di qualcosa di grande: Dinka e Nuer accanto all’ospedale di Turalei ballavano assieme. Naturalmente nessuna organizzazione umanitaria considerò la proposta antropologica («Siamo medici», fu l’epitaffio). Così si arrivò, nel 2011, al referendum separatista tra Sudan del Nord e del Sud senza alcuna forma di integrazione. Poco a nord di Turalei, inoltre, c’è l’area contesa di Abyei. Barack Obama aveva fretta di annunciare la nascita del «primo Stato postcoloniale d’Africa», per cui fu concesso alla popolazione attorno ad Abyei di «votare in seguito» da che parte stare.

Dopo scontri feroci e spostamenti forzati di popolazione per ragioni di maggioranza elettorale, non se ne fece più nulla. A Turalei ci furono incursioni e si curarono i feriti, per quanto possibile. Nel resto del Sud Sudan, un paio d’anni dopo il referendum separatista, Dinka e Nuer aprirono una nuova guerra civile su basi pseudo-identitarie. Morti, stupri, profughi, disastri umanitari, le solite cose.

Nel 2010, tornando a Turalei non avevo visto neppure un kalashnikov: tutti i Dinka sembravano averne avuto abbastanza. Alcune vedove di guerra mi fecero entrare in un luok, spiegandomi che le vacche vi sono tenute con il muso verso il centro. «Così si conoscono, non combattono e imparano l’una dall’altra», dissero. Mentre ci muovevamo tra gli otto pali di sostegno, una vacca nera ci seguiva con gli occhi, come una padrona di casa in ambasce per il disordine. Quando siamo usciti è apparsa sollevata.

Forse dovremmo lasciare il Sud Sudan alle mandrie dalle corna lunate, ai pastori nudi e alle donne per cui si canta: «I tuoi occhi sono come quelli della mia vacca dal manto nero col fianco pezzato, di pura bellezza». Le vacche dei Dinka, però, sono d’impaccio per camion, moto e bici, in quel feto di traffico che si intravede qua e là, con il bell’andare dei fuoristrada bianchi delle organizzazioni umanitarie che hanno invaso il Sud Sudan. E il palo delle corna è scomparso dalla rotonda di Turalei.

Questo articolo è uscito sul numero 4/2020. Per acquistare una copia della rivista, clicca qui, o visita l’e-shop.

Nel dicembre del 2013, due anni dopo aver ottenuto l’indipendenza dal Sudan, nel Sud Sudan è scoppiata una guerra civile. Il presidente Salva Kiir ha accusato il vicepresidente Riek Machar di aver organizzato un colpo di Stato. L’Esercito popolare di liberazione del Sudan (Spla, gli ex guerriglieri che hanno formato le forze armate sud-sudanesi) si è spaccato tra i reparti fedeli a Kiir e quelli che sostenevano Machar. Allo stesso tempo i politici hanno strumentalizzato le divisioni tra i Dinka, l’etnia di Kiir, e i Nuer, quella di Machar. Con il passare del tempo altri gruppi sono stati coinvolti nei combattimenti e il conflitto si è trasformato in una guerra a sfondo etnico, alimentata da rivendicazioni storiche. In palio c’è il controllo di terreni fertili, ricchi di acqua e di petrolio. Adesso sembrano spirare venti di pace. Lo scorso 21 febbraio a Roma, con la mediazione della Comunità di Sant’Egidio, i leader degli opposti schieramenti hanno siglato un accordo per un nuovo governo di unità nazionale. Chissà. Ci avevano provato in passato, prima di tornare alle armi in un Paese già semidistrutto, il più giovane e più povero del mondo: sei anni di guerra civile hanno già causato 400 mila morti e 4 milioni di sfollati su una popolazione di 12 milioni (l’82% dei quali vive con meno di un euro al giorno).

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